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Comunità di famiglie

  • chiesadomestica
  • 23 mag
  • Tempo di lettura: 27 min

pubblicato lunedì 11 dicembre 2023 su Missioni Consolata




La comunità di Bethesda a Padova Essere insieme è salvifico

Quattro coppie, sedici figli, uniti attorno a un sogno che si realizza da cinque anni in un antico casolare, nell’ordinarietà di una vita quotidiana vocata all’accoglienza. Un’esperienza di Chiesa domestica che annuncia il Vangelo con la semplicità della vita di famiglie che sanno di non bastare a se stesse.

Via Adige, nella periferia nord di Padova, attraversa uno spicchio di campagna incuneato nel quartiere Sacro Cuore. Siamo in città, a 20 minuti di mezzi pubblici dalla basilica del Santo, ma attorno a noi c’è molto verde e campi coltivati.

Al civico 35 troviamo un cancello aperto che invita a percorrere il viale alberato fino all’antico casolare in fondo. Entriamo: il colpo d’occhio è molto bello e ci indica qual è uno dei motivi per cui questo posto è tanto apprezzato dalla Chiesa locale e dalla città. Il portico del corpo centrale della cascina è sostenuto da pilastri che formano cinque archi. Lì un tempo c’era la stalla sormontata dal fienile. Ai due lati, la struttura ospita gli appartamenti delle quattro coppie che, con i loro sedici figli, abitano qui. Siamo arrivati alla comunità di Bethesda che il 15 ottobre scorso ha celebrato i suoi primi cinque anni. Alla messa nel giardino, presieduta da monsignor Paolo Bizzeti, Vicario apostolico di Anatolia (Turchia) e amico delle quattro famiglie, erano presenti diversi sacerdoti e molti amici padovani. La comunità, infatti, nonostante la sua storia breve, intervallata anche dagli anni del Covid, è molto conosciuta a Padova. Tutti i fine settimana qui sono accolti gruppi, associazioni, singoli.

Celebrazione alla Comunità Bethesda
Ordinarietà accogliente

È lunedì sera. Andremo via domattina: vivremo un pezzo della vita ordinaria di questo piccolo villaggio dove, oltre alle quattro famiglie, ce n’è una quinta «accolta» che vive da quasi tre anni nel piccolo alloggio ricavato nella struttura allo scopo di offrire una sistemazione temporanea a qualcuno che ne abbia bisogno.

Quando abbiamo sentito Mauro Marangoni, 44 anni, per darci appuntamento, ci ha invitati a cena con l’idea di dedicarci con calma all’intervista dopo il rosario della sera.

Arriviamo nel pieno dell’andirivieni che precede il pasto serale. Bambini che tornano da una gita, altri dallo sport, gli adulti dal lavoro.

Barbara e Luana ci accolgono con un succo di frutta, poi ci mostrano il soppalco ricavato nel salone comune, l’ex fienile, dove dormiremo, e corrono a preparare la cena.

Mentre ci sistemiamo, sentiamo arrivare e andare auto e bici.

Poco dopo compare Mauro per portarci nel suo alloggio dove vive con la moglie Chiara Bolzonella, 43 anni, e i cinque figli: Giosuè, 15 anni, Pietro, 14, Teresa, 12, Martino, 9 e Lorenzo di 2.

Dal 2011 al 2013 Mauro e Chiara sono stati in Kenya come laici missionari fidei donum per la diocesi di Padova. A Nyahururu, 2.400 metri di altitudine, quasi 200 km a nord di Nairobi.

«Quando siamo tornati sentivamo il bisogno di continuare a vivere in comunità – racconta Chiara -. Lì eravamo insieme a sette sacerdoti. È stato bello, ma ci mancava il confronto con altre famiglie. Una famiglia da sola non basta a se stessa».

La cena è allegra. Tra il racconto della gita di un figlio, quello di un lavoretto fatto a scuola di un altro, battute e aneddoti, arriva presto l’ora del rosario nel porticato.

Oltre ai membri della comunità, ci sono anche alcuni amici. Le Ave Maria sono recitate dai bambini che un paio di volte si confondono saltando un verso. Gli adulti sorridono benevoli. Il clima della preghiera è semplice. Molto caldo.

Finito il rosario, Mauro ci invita a salire nel salone per l’intervista insieme a Damiano. Sono già le ventuno e l’indomani ci si alza presto per il lavoro. Salutiamo tutti gli altri che, dopo aver messo via le panche, vanno a prepararsi per la notte.

Nella grande sala si tengono gli incontri quando fuori non si può stare. Può ospitare un centinaio di persone. Diversi gruppi scout vi hanno già pernottato per le loro uscite.

A un’estremità, sotto il soppalco, c’è un bagno. All’altra estremità una piccola cappella, bella e accogliente. In un angolo c’è una cucina attrezzata.

Le famiglie della Comunità Bethesda
Desiderio di comunità

Mentre Damiano ci prepara una tisana, Mauro inizia a raccontare: «La comunità è composta da quattro famiglie. Luana e Alberto di 36 e 38 anni, con Giovanni di 10 anni, Giacomo di 4 e Tommaso di 1, sono i più giovani. Lei è insegnante alla primaria, lui è ingegnere e lavora nella ricerca.

Roberto e Barbara, 46 e 45 anni, lui ausiliario del traffico in autostrada, lei erborista, hanno cinque figli: Maria di 19 anni, Matilde di 17, Tobia di 12, Agnese di 10 e Gioele di 7.

Elena e Damiano hanno 43 e 44 anni, lei è ostetrica e lui lavora nella disabilità. I loro figli sono Giosuè di 13 anni, Tobia di 12, Giorgio di 8.

E poi ci siamo noi. Io lavoro in azienda come responsabile di amministrazione e controllo, Chiara è insegnante di religione alle superiori. Come vedi, 12 figli su 16 sono maschi».

La storia della comunità di Bethesda potremmo farla iniziare con il rientro di Mauro e Chiara dal Kenya e con la contemporanea ricerca di un’esperienza di comunità da parte di Roberto e Barbara. «Noi nel 2013 tornavamo da tre anni di missione – racconta Mauro -. Roberto e Barbara, che conoscevamo da tempo, in quel periodo vivevano il fallimento di un progetto di una casa di accoglienza con alcune suore.

Loro frequentavano il centro Antonianum di Padova, gestito dai gesuiti, dove il direttore ai tempi era padre Paolo Bizzeti, che sarebbe poi stato nominato Vicario apostolico dell’Anatolia nel 2015.

Padre Paolo ha una ricca storia di comunità di famiglie: ha contribuito a fondarne due a Bologna, una in Toscana. Insomma, sentendo il nostro desiderio ha “annusato l’affare”, e abbiamo organizzato una serie di serate per chiunque fosse interessato a un’esperienza di comunità tra famiglie.

La prima sera sono venute ventiquattro coppie: alcune convinte, altre meno, con diverse motivazioni e idee di comunità. Da lì è iniziato un percorso di “scrematura” che in tre serate le ha portate a dodici.

C’erano poche linee guida, ma molto chiare: che fosse un’esperienza dentro la Chiesa cattolica, che fosse prevista una convivenza e un progetto di accoglienza, che ci fosse una guida spirituale».

Momento insieme alla Comunità Bethesda
Attorno a un sogno

Dopo i primi incontri, le dodici famiglie hanno iniziato a trovarsi una volta al mese. Nel giro di sei mesi, sono diventate quattro. Era dicembre 2014. «È stato un ritrovarsi e un discernere sul desiderio comune. Sin dall’inizio era chiaro che non era un progetto in nome di un’amicizia, ma di un sogno da realizzare», chiarisce Mauro.

Damiano ci mostra una tavoletta di legno appesa sopra la cucina. Sopra sono incisi il nome della comunità e il logo. Questo raffigura in forma stilizzata i cinque archi del porticato.

«I cinque archi rappresentano i pilastri su cui si fonda “il sogno” di Bethesda – ci dice -: fraternità tra famiglie, Parola di Dio, servizio alla Chiesa, accoglienza di bisognosi e misericordia. Quest’ultima è un po’ il collettore di tutto il resto».

«L’idea è che lo stare insieme passa attraverso l’esercizio della misericordia», aggiunge Mauro. E prosegue: «Quando noi quattro famiglie abbiamo deciso di partire, abbiamo iniziato a trovarci tutte le settimane per pregare, ragionare e sognare insieme. È nata l’idea di cercare un nome simbolico. Era il 2015, l’anno del giubileo della Misericordia, e Bethesda, versione inglese di Betzaetà, significa “Casa della misericordia”. È il nome della piscina di cui racconta il Vangelo di Giovanni al capitolo 5 che aveva cinque portici, come i cinque archi di questo cascinale. Gesù entra a Gerusalemme dalla Porta delle pecore, vede il paralitico e gli chiede: vuoi guarire? La cosa per noi interessante è la risposta del paralitico: sì, ma non ho nessuno che, quando passa l’angelo, mi butta nell’acqua. Siccome l’idea della comunità di famiglie è quella di prendersi cura l’uno dell’altro, ci piaceva l’immagine di essere gli uni per gli altri quelli che, quando hai bisogno, ti prendono e ti buttano dentro la piscina. Crediamo fermamente – prosegue Mauro – che una delle grandi fatiche delle famiglie in questo tempo è la solitudine. Essere insieme non è facile, perché ti pesti i piedi, ti arrabbi, l’altro ti mette di fronte ai tuoi limiti, ma è salvifico».

Parole chiave della Comunità Bethesda
Una cascina in città

Una volta radunate attorno a un progetto, ora le famiglie dovevano trovare un luogo nel quale realizzarlo. Inizialmente avevano pensato a una struttura della diocesi, nella quale andare in comodato d’uso o con altre formule, in modo che l’impronta ecclesiale della comunità fosse esplicita fin dalle mura. Ma quella ricerca non ha dato frutti e, quando si è orientata verso l’acquisto di una casa, è spuntato il vecchio cascinale di via Adige, abbandonato oramai da anni.

Mauro ci mostra un album fotografico. Nelle foto della messa di apertura del cantiere dell’8 maggio 2017, sullo sfondo, si vedono muri scrostati, scritte, erbacce. Il luogo era noto nel quartiere per essere frequentato da spacciatori e vandali.

Un po’ di pagine dopo, le foto del 14 ottobre 2018 mostrano il cascinale ristrutturato con una folla di mille persone, 24 sacerdoti e un vescovo (padre Paolo) radunati nel prato di fronte al porticato per la messa d’inaugurazione della comunità.

«La cosa bella è che la Chiesa locale ci riconosce tantissimo – racconta Mauro -. Tutte e quattro le nostre famiglie hanno un’importante storia ecclesiale, e tutti abbiamo da subito raccontato a molti il nostro sogno. E quando racconti un sogno, la gente se ne prende cura.

Anche grazie alla “pubblicità” che ci ha fatto padre Paolo, abbiamo avuto aiuti da ogni parte per realizzare questa cosa che altrimenti sarebbe stata al di là delle nostre capacità. I nostri quattro alloggi, infatti, li abbiamo acquistati e ristrutturati con i nostri soldi, ma le parti comuni come questo salone, la cappella, l’alloggio per l’ospitalità, gli spazi esterni, che sono proprietà dell’associazione costituita ad hoc, non saremmo mai riusciti a comprarli e sistemarli senza il contributo economico, e poi anche fisico, di molti che hanno creduto nel nostro progetto.

È stata l’esperienza di Provvidenza più concreta della mia vita – chiosa Mauro -. La cosa bella della comunità è che è qualcosa di più della somma dei singoli. Qualsiasi cosa qua dentro nessuno di noi sarebbe stato in grado di farla da solo».


Accoglienza

Nella cascina, da tre anni, vive anche una famiglia accolta. Damiano racconta: «Dopo otto mesi che eravamo qua, abbiamo iniziato l’accoglienza con un ragazzo spagnolo venuto a Padova per lavorare qualche mese. Poi ci siamo rivolti alla Caritas, ed è arrivata questa famiglia che ora è in grado di fare un passo verso l’autonomia. Oggi abbiamo la possibilità di costruire nuovi spazi per l’accoglienza. Abbiamo infatti ricevuto molte richieste, le più varie, e quindi ci stiamo interrogando su come fare». «Ad esempio – aggiunge Mauro -, quest’anno abbiamo avuto tre richieste per padri separati che non sanno dove andare. Poi ci sono persone che vorrebbero venire nei fine settimana. Un sacerdote che voleva stare qua un mese. C’è tanta gente che ci chiede. E queste richieste ci interrogano».

Spazio comune della Comunità Bethesda
Più relazioni che programmi

Gli appuntamenti annuali proposti dalla comunità di Bethesda non sono molti, eppure tutte le settimane c’è gente che va e viene per il viale alberato. Lo stile delle quattro famiglie è più improntato all’accoglienza e alle relazioni che ai programmi.

Anzitutto le «relazioni interne»: «Abbiamo degli appuntamenti fissi – elenca Mauro -. Il lunedì mattina le lodi. Il giovedì sera una preghiera più lunga per noi adulti. Il venerdì sera una preghiera con i figli. Il martedì abbiamo la riunione tecnica, dove decidiamo i compiti dei giorni successivi. La domenica è la giornata in cui invitiamo le persone a venirci a trovare e stiamo tutti insieme. Normalmente siamo da quaranta in su».

«Spesso vengono alcuni frati che sono a Padova per studiare. Provengono dall’America Latina e dall’Europa – aggiunge Damiano -. Vengono perché si sentono a casa, respirano un clima di famiglia».

«Poi ci sono coppie amiche – continua Mauro -, e compagni di scuola dei nostri figli, magari figli unici, che stanno qui dal venerdì alla domenica».

Per quanto riguarda gli appuntamenti con «esterni», «oltre al fine settimana di esercizi spirituali che organizziamo per famiglie una volta all’anno e due pellegrinaggi a Natale e Pasqua – ci dice Mauro -, quello che facciamo è principalmente accogliere. Ci chiedono di venire quasi tutte le settimane gruppi di diverso tipo: scout, coppie, associazioni.

Il nostro servizio poi lo offriamo in parrocchia: il coro, il catechismo, l’oratorio, il catecumenato.

Il bello della comunità è che siamo tanti e possiamo dividerci i compiti. Detto questo, però, bisogna fare un po’ di attenzione alla bulimia di attività: anche stare un po’ a casa è importante».

Tramonto alla Comunità Bethesda
Il nucleo è la famiglia

A proposito di stare un po’ a casa e in famiglia, chiediamo come i figli vivono questa esperienza.

«Loro fanno molta più comunità di noi – risponde Mauro -. Noi facciamo riunioni infinite, facciamo attenzione agli equilibri, una volta al mese ci troviamo con una psicoterapeuta che ci aiuta nella gestione dei conflitti. I nostri figli, invece, sono liberi di mandarti a quel paese, di vivere la comunità dall’inizio alla fine. Chi è nato qui è proprio parte dei muri. Non starebbe altrove».

Domandiamo qual è il vantaggio, se c’è, di essere un ragazzino che cresce in un contesto come questo: «C’è un fortissimo senso dell’altro – dice Mauro -. Qui vedo crescere bambini che non si concepiscono da soli. A volte dicono: ma non posso avere una volta un gioco solo mio? Per le biciclette abbiamo messo i cartelli: questa è tua e guai a chi te la tocca; però vedo un bell’equilibrio relazionale dei nostri ragazzi».

Mauro prosegue: «Comunque la famiglia rimane il nucleo della comunità. La comunità deve essere al servizio della famiglia, se fosse il contrario non avremmo capito niente. Questo perché non siamo famiglie strane o speciali, siamo normali. La nostra non è una scelta assurda, nella quale devi buttare via tutto. L’unica cosa da buttare via è l’idea di non avere bisogno degli altri».

«La normalità – aggiunge Damiano – per noi riguarda la questione delle case che si fanno chiesa, della Chiesa domestica. La Porta delle pecore da cui entra Gesù a Gerusalemme è la porta da cui entrano le persone che vanno al tempio. Una specie di porta di servizio. Per noi è importante che questo posto, che è molto bello e speciale, sia anche molto normale, perché possa essere quella porta di servizio per la Chiesa, per quelli che, per mille motivi, dalla porta principale nella Chiesa non ci entrano».

Si è fatto tardi. Damiano e Mauro si congedano e ci augurano un buon riposo.

Il mattino successivo, dopo la colazione a casa di Mauro e Chiara tra zaini da finire di preparare e occhi assonnati, ci sediamo sotto il porticato prima di essere accompagnati in centro da Damiano. D’un tratto, il silenzio del mattino viene interrotto dalle voci allegre dei ragazzi che escono tutti simultaneamente dalle loro case con gli zaini in spalla. Si salutano, vanno al piccolo capanno delle biciclette, ci montano sopra, si aspettano finché non sono tutti pronti, e partono.

Li vediamo sciamare per il vialetto, oltre al cancello sempre aperto.

di Luca Lorusso

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