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Verso una pastorale antifragile

OLTRE L’ADATTAMENTO E LA RESILIENZA


di Roberto Mauri – Centro Studi Missione Emmaus

pubblicato il 20 Aprile 2020

-- Nota di missioneemmausblog.wordpress.com : Con questo articolo il nostro Roberto Mauri, a nome del Centro Studi, intende avviare un nuovo processo di riflessione. Dopo gli articoli su ‘La Chiesa dopo il Coronavirus’, desideriamo approfondire quale nuovo paradigma pastorale sembra emergere con forza da quanto stiamo apprendendo. Per una Chiesa che non si limiti ad una strategia adattiva o alla semplice resilienza, ma si avvi su cammini di antifragilità. Cos’è l’antifragilità? È possibile pensare una pastorale e una Chiesa antifragili? --


L’emergenza sanitaria che stiamo attraversando innesca, come ben sappiamo, una serie di altre emergenze tra cui quella pastorale. Va detto peraltro che uno degli effetti dell’emergenza, come suggerisce la parola stessa, è quello di ‘far emergere’ – ovvero rendere percepibili – aspetti della realtà e della vita in precedenza sotto traccia: segnali deboli, questioni irrisolte, eventi trascurati, connessioni non consapevoli.


Tra i tanti effetti prodotti, uno tra i più interessanti è proprio quello di evidenziare i diversi approcci e modalità con cui l’emergenza stessa viene affrontata. Vale per le organizzazioni come per le comunità, per le famiglie come per gli individui. Vale anche per la pastorale.


Cosa fa emergere dunque a livello pastorale questa emergenza? Quali sono i diversi modelli adottati dalla pastorale per cercare di gestire l’emergenza?


E’ possibile al riguardo evidenziare e prendere in esame tre modelli: il modello adattativo, il modello resiliente e il modello antifragile. Tutti i tre modelli sono presenti ed attivi in questa emergenza dal momento che non sono tra loro incompatibili, ma in misura e con caratteristiche profondamente diverse.


ADATTAMENTO: “ANDRA’ TUTTO BENE”

Il primo e più immediato modello di risposta ai cambiamenti imposti dall’emergenza è l’adattamento, il processo attraverso cui si cerca di ristabilire o recuperare una situazione di maggiore equilibrio o almeno di riduzione del danno/conflitto prodottosi nel proprio ambito di riferimento.


Quando la nostra zona di confort, il nostro stile di vita, i nostri copioni relazionali vengono minacciati o stravolti, la prima reazione è quella della difesa, della salvaguardia delle nostre sicurezze. La capacità di adattamento va in questo senso considerata una grande risorsa, in grado di attivarsi in modo spontaneo ed immediato in quanto risponde ad una logica di sopravvivenza: essa mira a consentire la continuità nonostante i cambiamenti imposti, ovvero riuscire (o per lo meno tentare) a fare le stesse cose di prima per gli stessi precedenti motivi, anche se in modo diverso da prima.


Il modello adattativo – sia esso personale, organizzativo o pastorale – richiede elasticità, grande pragmatismo, buoni riflessi e senso di appartenenza. Per contro esso è in larga misura ‘passivo’, reattivo: non è in grado, ad esempio, di anticipare gli eventi ma solo, per definizione, di adattarvisi, facendo per lo più ricorso all’esperienza, la tradizione. Per questo il modello adattativo si espone al rischio gattopardesco del ‘cambiamo tutto per non cambiare niente’: si tratta infatti di riuscire a modificare o adeguare gli aspetti esteriori e tattici per salvaguardare quelli più profondi e strategici: cambiare ciò che serve per non cambiare noi stessi, le abitudini, le nostre priorità ed interessi. Non a caso il motto del modello basato sull’adattamento è ‘andrà tutto bene’ … o se si preferisce la tradizione nostrana, “adda passà ‘a nuttata!”.


Come abbiamo tutti potuto constatare, in questo periodo di lockdown domestico e sociale, la fantasia adattativa ha avuto ampio sfogo, con esiti a volte geniali ma più spesso improbabili, dagli effetti anche buffi ma più spesso patetici o ridicoli: chi non ha ricevuto dei video (quando non li abbiamo realizzati noi per primi) di allenamenti in casa, cucine trasformate in aule, improbabili bevute e grigliate fai da te … tutto per cercare di conservare ritmi e abitudini, ritualità e pratiche – anche religiose – precedenti, adattandole (appunto) alle nuove circostanze. In questo modello, infatti, l’emergenza e la conseguente esigenza di cambiamento è un ostacolo/pericolo/imprevisto da gestire, non un’opportunità da cogliere.


Anche a livello pastorale, l’adozione del modello di adattamento nella gestione dell’emergenza risponde alle esigenze immediate di garantire la continuità: si tratta di difendersi, salvare il salvabile. Una risposta tanto più efficace tanto più se adottata in modo coeso, prevedibile, docile, conformista, rispettosa delle indicazioni e standard comportamentali richiesti dalle autorità, siano esse civili o ecclesiali.


Ovviamente il modello pastorale adattativo si presta ad essere interpretato in più modi, dal più passivo e ‘osservante’ a quello più proattivo e ricco di varianti sul tema. Non cambia invece il paradigma di riferimento, la visione della realtà, che resta quella pre-emergenza: si modifica molto il ‘come’ (encomiabile al riguardo lo sforzo di usare le risorse del web, anche se spesso in modo ingenuo e casareccio), talvolta il ’cosa’ (ripescando ad esempio, in stile vintage, pratiche devozionali dimenticate) ma non il ‘perché’ (il rapporto con il sacro da salvaguardare nonostante la distanza). Certamente l’uso del modello adattativo ha consentito alle autorità ecclesiali di ‘tamponare’ il proprio disorientamento e quello dei fedeli, le prassi liturgiche e religiose acquisite; il costo pastorale pagato è tuttavia elevato: condensazione dei riti, cancellazione di gesti liturgici, ricorso a simulacri, rinuncia al senso comunitario, sconnessione con eventi vitali quali nascita, amore, morte.


RESILIENZA: “CE LA FAREMO”

Quando l’emergenza arriva a livelli tali da non rendere più sostenibile il permanere nella propria zona di confort, in cui disagio e difficoltà si presentano come veri e propri shock o traumi, oppure sfide ineludibili, il ricorso alle strategie di adattamento mostra i suoi limiti e si rivela inadeguato.


Il modello di riferimento diventa piuttosto quello della resilienza, meglio in grado di affrontare situazioni critiche in cui le capacità di tolleranza fisica e/o psicologica sono messe a rischio.


Il modello della resilienza – termine che significa ‘rimbalzare’, in analogia alla proprietà dei metalli di riprendere la forma originaria dopo aver subito un colpo – indica la capacità di un sistema, più spesso un individuo, di affrontare i traumi, assorbire e superare le difficoltà/limiti, riorganizzandosi in modo da uscirne nel modo più integro possibile, da ‘vincitore’. Le persone e le comunità resilienti sono quelle in grado di resistere agli eventi avversi della vita, della realtà: deprivazioni, incidenti, calamità, conflitti bellici, … pandemie.


Il modello resiliente insiste sulla possibilità di sviluppare una forte consapevolezza degli aspetti di vulnerabilità per poterli superare e soprattutto ‘non arrendersi’. La vulnerabilità diventa una risorsa in grado di anticipare il meglio mentre si vive il peggio, la guarigione dopo la ferita, gettando un nuovo senso della vita che altrimenti sarebbe rimasto in ombra. Essere resilienti dunque, diversamente dal semplice adattamento, richiede un supplemento di forza interiore e motivazione, la piena mobilitazione delle risorse dei singoli come pure dei gruppi e delle comunità.


Le virtù chiave della resilienza sono tenacia, determinazione, coraggio, fede. Se portata all’estremo, il modello resiliente tende a degenerare, alimentando atteggiamenti di superiorità, prepotenza, senso di ‘invulnerabilità’, come a volte si ritrovano nei ‘sopravvissuti’, persone che ‘hanno visto la morte in faccia’ e sono ossessionati dal dover vincere sempre.


L’approccio resiliente è sostanzialmente agonistico, centrato sul massimo impegno, anche estremo e mortale, tipico degli eroi o, se si preferisce, dei martiri: l’emergenza e la conseguente crisi è dunque un avversario da fronteggiare e sconfiggere, basato sulla riscoperta e riattivazione delle risorse e andando oltre i propri limiti. Le battute simbolo di questo approccio, che sentiamo così spesso oggi ripetere sono “ce la faremo”, “resisteremo”, “vinceremo”, dando (manco a dirlo) il meglio di noi stessi, dal momento che “siamo in guerra”.


Il modello resiliente è valido soprattutto nel mobilitare e motivare le singole persone o i piccoli gruppi. Non a caso è uno dei modelli preferiti dal mondo dello sport, fino alla sua degenerazione nel campionismo. Il modello della resilienza premia le personalità forti, le doti estreme, coloro che ‘ce l’hanno fatta’, gli ex-perdenti, proponendoli come esempi da seguire.


Inoltre, analogamente a quello adattativo, il modello resiliente è parte ed espressione del paradigma che ha prodotto l’emergenza/crisi: non cambia la logica dominante, semplicemente le si resiste, volendo dimostrarsi più forte. Quando la pastorale adotta il modello della resilienza opera una resistenza attiva alla situazione traumatica: più si è esposti al rischio, più ci si avverte vulnerabili, più occorre riscoprire e testimoniare i ‘fondamentali’: la solidarietà in primis, la costanza, la fedeltà, il sacrificio.


Il modello pastorale resiliente durante l’emergenza coronavirus si ritrova sia a livello gerarchico ma soprattutto in quelle iniziative semi spontanee messe in campo da singole figure pastorali: il parroco che percorre 51 km in un giorno per portare l’ulivo a tutte le famiglie; gli opinion leader religiosi che montano e ‘sparano’ video a ripetizione, oppure alimentano instancabilmente gruppi WhatsApp; i cappellani che rischiano il contagio per una benedizione alle salme; fino alla figura ‘eroica’ di Francesco in preghiera nel deserto di piazza San Pietro.


ANTIFRAGILITA’: “ANDRA’ TUTTO NUOVO”

Quando il livello di complessità dell’emergenza/crisi non può essere ricondotto o affrontato restando nella dimensione individuale/interpersonale ma diventa un fatto comunitario, ambientale, di sistema, il modello più adeguato nel gestire l’emergenza diventa allora quello della ‘antifragilità’.


Diversamente dai precedenti, il modello anti fragilità supera il livello quantitativo del cambiamento (più … meno …), basato sui rapporti di forza, pervenendo ad un cambiamento qualitativo: adottare l’ottica della antifragilità impone un cambio di paradigma, una visione alternativa, la capacità e volontà di leggere il mondo da una prospettiva nuova e diversa: il cambiamento non è solo quello esterno ma soprattutto quello interno/interiore, ovvero il nuovo sguardo sulla realtà ed il ruolo delle comunità come attori del cambiamento. Non si tratta di diventare ‘super’ ma rendere fertile la fragilità che accomuna le diverse comunità e gruppi sociali, a partire dai livelli inferiori, perché è l’insieme di queste fragilità a fare la differenza e risolvere le contraddizioni poste dall’emergenza e dalle crisi.


I sistemi e le comunità antifragili crescono spontaneamente in forma auto-organizzata, quando invece l’ordine imposto dall’alto ottiene solo un’apparenza di sicurezza e di stabilità.


‘Antifragile’ significa non pretende soluzioni in modo preordinato, quanto individuare spazi di futuro traendo profitto dalla casualità e dalle esperienze dolorose: la fragilità delle singole parti, accogliendosi e raccordandosi rendono antifragili i sistemi che si generano, resi forti grazie alle difficoltà incontrate.


Proprio la fragilità è ciò che ci rende più umani e capaci di comprendere le emergenze critiche: è la nostra possibilità di spezzarci, venir feriti a renderci davvero vicini e solidali. Nel modello antifragilità il punto non sta nel reggere bene i colpi e non subire danni ma progredire grazie ad essi: non si tratta di evitare o superare pericoli o traumi ma usarne l’energia per svuotarli e generare nuove possibilità di senso.


L’antifragilità è l’arte comunitaria di ‘danzare con la crisi’, la quale in questo modello diventa un inaspettato ‘alleato’, fonte e stimolo alla comprensione dell’inatteso e dell’improbabile: l’atteggiamento antifragile è curioso, coltiva uno sguardo ‘sapientemente innocente’, è attento ai segnali deboli, persegue il discernimento, non si chiede ‘come’ ma ‘perché’, anche a rischio di sembrare ingenuo.


Un esempio di strategia antifragile è il ricorso allo humour. L’umorismo si differenzia da altre strategie di gestione verso eventi stressanti perché non nega l’evento negativo ma aiuta a interpretarlo come meno minaccioso. L’aspetto antifragile dello humour consiste nel cambiare le premesse, il punto di vista: attenua le risposte emozionali e comportamentali negative a vantaggio di quelle positive. La gran quantità di video umoristici prodotti sull’emergenza coronavirus evidenzia quanto anche questo modello sia stato, forse inconsapevolmente, per fortuna presente e utilizzato. Occorre ammettere che, salvo rare eccezioni, la pastorale ha finora abbastanza trascurato questo modello di gestione dell’emergenza e del cambiamento.


Al contrario, tende a prevalere un atteggiamento pastorale che – preoccupato di ‘fare qualcosa’ e testimoniare la vicinanza – finisce per aggravare i danni piuttosto che sistemarli, ovvero attivare processi in cui il danno è causato dal guaritore.


Una pastorale antifragile è quella che accoglie la sua povertà, accetta di rafforzarsi grazie alle difficoltà che incontra. Perché la pastorale possa progredire in senso antifragile occorre un cambiamento di paradigma ecclesiale: ciò comporta infatti rinunciare alla centralizzazione, specialmente se oltre ad indicare degli indirizzi generali si pretende simultaneamente di gestire il funzionamento del tessuto ecclesiale in ogni sua parte. Pastorale antifragile significa rinunciare alla mania dell’efficienza, come pure all’eccesso di specializzazione ancora prevalente in molti organismi ecclesiali, che riduce la capacita di apprendimento e di generare nuova vita.


Ci chiediamo: una pastorale che risponde in modo adattativo rispetto alla emergenza creatasi nel presente, come potrà affrontare il futuro? Possiamo immaginare una risposta ‘fragile’ ma generativa da parte della comunità cristiana che dal basso risalga i livelli della istituzione ecclesiale? Possiamo sperare in una pastorale che non si affanni di ‘cosa mangerà e berrà, o del vestito che indossa’, affidandosi allo Spirito?


Abbiamo bisogno urgente di una svolta della pastorale in senso antifragile, per evitare che essa rimanga nel sepolcro in cui sembra essersi rinchiusa: pastorale, vieni fuori!

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